Signor Presidente, gentili Consiglieri di Stato, colleghe e colleghi,
i dati preoccupanti riguardanti i salari in Ticino non ci possono lasciare indifferenti.
Le retribuzioni basse hanno conseguenze profonde e durature sull’intero tessuto sociale del nostro Cantone. Colpiscono la vita quotidiana delle persone, minano la coesione sociale, compromettono le prospettive per i giovani, e allo stesso tempo indeboliscono le finanze pubbliche e riducono la capacità dello Stato nello svolgimento dei suoi compiti fondamentali.
Non possiamo più permetterci di ignorare questi segnali. Per questo oggi vorrei portare la vostra attenzione su tre questioni centrali, fortemente intrecciate tra loro:
- il divario salariale rispetto al resto della Svizzera,
- la diffusione della povertà e della precarietà,
- e una politica fiscale che rischia di amplificare le disuguaglianze anziché correggerle.
Solo affrontando insieme questi nodi possiamo sperare di invertire una tendenza che dura da troppi anni e che ha reso il nostro Cantone più fragile, più diseguale e più povero di prospettive.
1.
La recente analisi USTAT, «I salari nel 2022», conferma la crescita del divario salariale tra il nostro Cantone e il resto della Svizzera. Un divario che è andato progressivamente ad ampliarsi in questi ultimi anni, fino a raggiungere il 23,9%. Nel settore privato, nel 2022, in Ticino la mediana dei salari era di 5’301 franchi, mentre nel resto del Paese era di 6’570 franchi. Senza entrare nei dettagli diremo che nel terziario lo scarto raggiunge il 50,6% e il 36,6% per le attività professionali scientifiche e tecniche. Una situazione – nei settori della finanza, della comunicazione, della ricerca e dell’informatica – che sta alla base della fuga o del non ritorno di molti e molte giovani nel nostro cantone.
L’analisi di tutti i dati dimostra che «sebbene la struttura economica regionale influenzi in parte queste differenze, una parte sostanziale del divario rimane non spiegata. Infatti, in alcuni rami economici, le differenze risultano particolarmente ampie e indicano una sostanziale differenza con il resto del Paese». Se poi si considera l’aumento dello scarto fra le retribuzioni più alte e quelle più basse, la situazione è ancor più preoccupante.
2.
Il recente studio dell’Ufficio di Statistica dell’Unione Europea ci dice che il 35% dei ticinesi è a rischio di povertà relativa o di esclusione sociale, cioè a rischio di grave deprivazione materiale: essere impossibilitati a pagare l’affitto o le fatture, ad affrontare una spesa imprevista, a concedersi una vacanza o mangiare carne due volte a settimana, vivendo in famiglie con un’intensità di lavoro molto bassa o precaria.
Oggi ci troviamo confrontati con insidiosi fenomeni nuovi come la GIG economy, l’uberizzazione e la disoccupazione mascherata.
Una pagina triste è rappresentata da una politica fiscale “affamatrice dello Stato” di stampo neoliberista, teorizzata nel 1998 nel manifesto “Ticino 2015, il Libro bianco sullo sviluppo economico cantonale nello scenario della globalizzazione”.
Oggi, in una situazione peggiore di quella di allora, ci si ostina a ridurre le entrate fiscali tagliando la spesa sociale e la spesa pubblica, in nome dell’illusione di uno “sgocciolamento” verso il basso e verso l’economia reale della ricchezza indotta dagli sgravi fiscali.
Però, come vediamo, la ricchezza resta in alto e finisce perlopiù nei mercati finanziari, dove crea altra ricchezza che resta ai ricchi, aumentando le disuguaglianze.
Siamo di fronte a una politica ideologica, ossessionata dall’attrattività fiscale e dalla lotta al disavanzo. Una politica che, ostaggio dei poteri economici, non vuole affrontare le vere cause della nostra fragilità socioeconomica. Sono interessi di casta – vedi il proliferare degli uffici di consulenza fiscale – che ambiscono esclusivamente a legittimare i privilegi, alimentando povertà, pressione sui salari, sulle condizioni di lavoro e sul potere di acquisto dello stesso ceto medio.
Del resto, è sicuramente contraddittoria la posizione di chi da una parte vuole indebolire l’ente pubblico e dall’altra esige corposi investimenti nel privato. Non dimentichiamoci che lo Stato, oltre a essere un importante datore di lavoro ed erogatore di servizi, è anche un importante attore economico, e che, grazie alle sue spese, molte imprese in Canton Ticino ottengono dei profitti.
3.
Che fare? Diciamo subito che non è corretto l’atteggiamento di quegli imprenditori che assumono personale frontaliero per pagarlo meno e per imprimere una pressione al ribasso sugli stipendi.
Molte imprese sfruttano la “disoccupazione nascosta” delle persone “precarizzate”, disposte a lavorare anche per retribuzioni irrisorie. E qui deve intervenire l’aiuto sociale, che è a carico di tutti i contribuenti. Si tratta – come afferma giustamente l’economista Sergio Rossi – di «un sistema perverso che è una zavorra per l’economia e la società ticinese nel suo insieme». Anche perché le buste paga leggere si traducono in minori entrate fiscali, che portano lo Stato a proporre – in assenza di visioni alternative valide – i tagli dolorosi che purtroppo conosciamo.
Non possiamo stare a guardare! Per riorientare il sistema economico ticinese «non si può lasciar fare al libero mercato: l’economia non può essere lasciata a se stessa, ma va inquadrata da uno Stato forte e autorevole. Bisogna che lo Stato intervenga per affrontare i problemi di tutta la collettività e lo strumento della fiscalità è molto efficace perché può essere calibrato ai vari tipi di impresa, manodopera e attività economica».
Interessante è la proposta di Rossi: «stimolare fiscalmente le grandi imprese – ma anche quelle piccole e medie che le seguono a ruota per essere competitive – a ridurre il divario salariale tra i manager e i collaboratori meno qualificati».
Quelle che versano delle remunerazioni corrette ai lavoratori meno qualificati e non ne danno di esagerati a chi sta in cima alla scala salariale, potranno pagare meno imposte sugli utili, il contrario per chi agisce all’opposto.
Insomma: incentivi positivi per chi ha un comportamento virtuoso e negativi per chi ne ha uno vizioso che danneggia il sistema economico!
Esiste una discrepanza sempre più marcata fra chi guadagna molto e chi guadagna poco. E molti ticinesi – circa il 25% – non pagano le imposte perché non hanno abbastanza reddito. E se fossero le aziende – magari non tutte – a pagare stipendi che non permettono di vivere?
Già, le associazioni padronali… Lo abbiamo sentito con le nostre orecchie:
il direttore dell’Unione padronale svizzera, Roland Müller, attaccando l’esistenza stessa del salario minimo – che opportunamente abbiamo istituito in Ticino ma che dobbiamo assolutamente aumentare – si è permesso di affermare, davanti alla Commissione dell’economia dell’Assemblea federale, che “non è responsabilità dei datori di lavoro garantire un salario decente”, ma che “deve intervenire l’aiuto sociale”. Ecco una sintesi perfetta della logica che piace ancora a troppi, anche in questo Parlamento: secondo loro i benefici devono finire nelle tasche dei privati, i costi invece devono ricadere sullo Stato.
Da ogni punto di vista – economico, sociale e soprattutto morale – questa visione è inaccettabile. Non è ammissibile che un imprenditore incapace di garantire salari dignitosi venga mantenuto dalla collettività. Ancor meno che qualcuno costruisca i propri profitti sullo sfruttamento deliberato dei lavoratori. Eppure, questo è il sistema che abbiamo lasciato crescere negli ultimi decenni e che qualcuno vuole perpetuare.
In Ticino, come abbiamo detto, il 25% delle persone non ha nemmeno un reddito sufficiente per pagare le imposte. Al tempo stesso, redditi da capitale e grandi sostanze milionarie non contribuiscono in misura equa. Il ceto medio, eroso nel suo potere d’acquisto, sopporta il peso più pesante. Nel frattempo, per mancanza di risorse, si tagliano i servizi nella scuola, i sussidi cassa malati, gli aiuti sociali, gli investimenti e persino gli interventi d’urgenza contro le catastrofi ambientali.
È ora di riequilibrare.
Ecco perché propongo, come spunto per una possibile iniziativa parlamentare, una misura straordinaria e temporanea di adeguamento fiscale rivolta alle persone super-ricche con sostanze imponibili milionarie oltre una soglia da definire, ispirandosi a esperienze come quella della sinistra ginevrina. Una misura per rafforzare le finanze pubbliche senza aumentare le imposte alla maggioranza della popolazione.
In conclusione. Non possiamo più aspettare! Servono più coraggio, più giustizia e soprattutto più Stato. Lo Stato deve tornare ad essere protagonista: non spettatore della crisi, ma garante dei diritti, regolatore del mercato, motore di equità. Solo così potremo restituire dignità al lavoro, futuro ai giovani, speranza a chi oggi non riesce nemmeno più a pagare l’affitto o una visita medica.
Grazie.