Yannick Demaria

Siamo il futuro che si difende: il futuro che si farà!

TRA LA MONTAGNA E IL JAZZ

Intervista Rivista TreValli a cura di Sara Rossi Guidicelli.

Prima di tutto partiamo dalla Valle di Blenio e forse le Tre Valli tutte. Che cosa sono per te personalmente?

Sono le origini e le sorgenti. Mi piace pensare che il fiume Brenno nasca sul Lucomagno e sulla Greina, e che poi, prima con il Ticino e poi con il Po, scorra fino al Mediterraneo, dove arrivano anche le acque del Nilo. 

Mi hanno sempre affascinato la natura, la montagna e i dialetti, ma soprattutto gli incontri e i racconti delle persone. L’ho imparato da piccolo durante le escursioni e le serate a Pe’ d’ Sass, all’Adula, in Greina, in Quarnèi, ma anche nei canti della Vox Blenii, all’archivio Donetta, con le attività della Fondazione Alpina per le Scienze della Vita di Olivone e gli appuntamenti al Cinema Teatro Blenio. Lì ho scoperto che ciò che è veramente autentico è prezioso e universale.

Camminare o sciare nelle nostre montagne mi ha insegnato ad avere rispetto per i luoghi dove hanno trascorso le loro vite difficili gli uomini e le donne che ci hanno preceduto.

La casa degli affetti è quella dei nonni a Comprovasco, dove fu la mitica stazione del “tram”. I bisnonni vivevano a Lottigna, nella casa (ora museo) dove è nato mio nonno Dino con le sorelle e i fratelli. La famiglia è di Leontica: dal ‘600 nei registri parrocchiali. Macaquâcc, quindi: un nome che suggerisce un’affinità nemmeno troppo sorprendente con il lait caillé che sempre ti offrono i Peul della regione montagnosa del Foutà-Diallon in Guinea, il popolo delle mie origini materne. 

Tu fai anche politica. Tra le altre cose, hai detto: «La natura idilliaca incontaminata è solo un mito urbano; bisogna invece ‘tornare ad abitare’». Cosa intendevi concretamente? 

La montagna non esiste senza uno stretto rapporto, a volte anche conflittuale, fra l’essere umano e la natura. La natura idealizzata è solo un’immagine turistica ad uso e consumo di una società consumistica, cioè un prodotto da vendere o comprare. Questa visione equivoca e contraddittoria va sostituita con la preservazione e la valorizzazione delle attività umane sostenibili già esistenti e la rivitalizzazione di attività economiche comunitarie del territorio, a vantaggio di una vita stimolante e gradevole per chi ci abita.

“Abitare” non può significare solo “avere”, possedere una casa in cui stare chiudendosi su se stessi senza interagire, ma muoversi, riconoscersi in un territorio, in un villaggio vivo socialmente, in una regione che dialoga e stabilisce collegamenti dinamici al suo interno, ma anche con regioni analoghe e con il resto del paese, anche con le città. È, ancora una volta, l’immergersi in un fiume che scorre: sempre lì, ma sempre in movimento.

Quando ci sediamo su una panchina collocata in uno spiazzo panoramico di uno dei nostri villaggi della media montagna, solitamente ci orientiamo verso il piano, verso il fondovalle, il borgo o la città. Per conoscere davvero la vita della montagna dovremmo però tornare a rivolgere il nostro sguardo a ciò che sta dietro e sopra di noi.

E quali sarebbero le tue priorità se tu fossi eletto in Gran Consiglio e potessi fare qualcosa per le cosiddette ‘zone periferiche’? 

Il primo obiettivo di una politica per le regioni di montagna dovrebbe passare dal riconoscere che le valli possiedono caratteristiche e bisogni che solo chi le abita può cogliere e identificare, e quindi bisogna prima di tutto ascoltare e fare opera di rappresentanza.

Importante è difendere e ampliare i servizi per la popolazione e combattere lo spopolamento con interventi economici mirati. Non bisognerà in nessun modo cedere allo smantellamento degli ospedali periferici, dei servizi di Pronto Soccorso e degli uffici postali. Indispensabile è potenziare i servizi di cura a domicilio e le possibilità di incontro intergenerazionale per gli anziani. Sono convinto che sia necessario favorire gli asili-nido, le attività di formazione e culturali e che occorra decentrare alcune attività dell’amministrazione cantonale, degli istituti universitari e della ricerca. Considerata l’emergenza climatica e ambientale si tratta di stimolare e sostenere attività economiche che permettano la creazione di posti di lavoro attrattivi per i giovani nel campo della transizione energetica, anche attraverso la riconversione delle zone industriali. Occorre trovare soluzioni coraggiose per ridurre il sovraccarico autostradale: in ogni caso va sostenuta l’Iniziativa delle Alpi, che chiede il trasferimento del traffico dalla strada alla ferrovia. Sarà necessario rafforzare e rendere capillari e vantaggiosi i trasporti pubblici, ideando soluzioni più snelle, elastiche e frequenti, per permettere agli anziani, ai giovani e a chi lavora una mobilità facilitata.

Veniamo ora alla tua visione del mondo. Cosa ti indigna?

La povertà, l’emarginazione, l’assenza di rispetto per la dignità umana, la violenza e l’indifferenza. E poi l’ineguale distribuzione della ricchezza, che è origine e causa di tutti i problemi. Nell’economia, nella politica e nella società purtroppo si è imposta l’accettazione passiva di un “pensiero unico” che ha permesso la concentrazione in poche mani delle risorse finanziarie e delle materie prime. Questa,  aggravando povertà, disuguaglianze e conflitti, ci ha trascinati all’emergenza climatica e alle crisi sociali che ora si manifestano anche nei paesi più ricchi e sviluppati. 

Anche su scala più piccola è lecito porsi seriamente qualche domanda. Una buona politica per le regioni passa dalle risorse finanziarie che l’ente pubblico è in grado di erogare: per la socialità, la salute, gli anziani, i trasporti pubblici, la conciliabilità scuola-lavoro, il sostegno ai contadini,  la cura del territorio e la promozione delle attività economiche, sportive e culturali. Proprio per il rispetto dovuto alle persone e alle famiglie che devono vivere con poco anche nelle nostre zone periferiche in difficoltà, ritengo poco avveduto rinunciare alla messa in atto di forme più eque di fiscalità redistributiva per ridurre le enormi disparità che esistono fra le persone e le regioni.

E cosa ti rasserena l’animo?

Pensare e condividere. Osservare e ascoltare: sapere che l’essere umano ha bisogno di esprimersi. Wayne Shorter, un grande sassofonista americano, ha detto che non è la musica in sé a farla diventare grande: è la persona a renderla magica. Amadou Hampâté Ba, scrittore e antropologo del Mali, nel suo “L’enfant Peul” fa dire al vecchio saggio: “Sii sempre all’ascolto: tutto parla, tutto è parola, tutto cerca di comunicarci una conoscenza”. Ciò che mi dà speranza è la certezza che c’è tanta brava gente che si dà da fare per aiutare, per servire la comunità,  per far sentire meno sole le persone, per creare bellezza, per dar voce a chi non ce l’ha.

In Ticino l’hanno fatto soprattutto gli scrittori e gli artisti delle valli. Molte e molti continuano a farlo.

Ho sempre amato vivere con gli amici, i compagni e le compagne di scuola. Mi è sempre piaciuto far parte di un gruppo scout, di una squadra di calcio e allenare i bambini, partecipare ai campi estivi formativi o musicali, spesso con mia sorella Aida. Bello anche far festa e stare insieme. Le radici e l’educazione che abbiamo ricevuto da papà Pier Franco e mamma Hawa ci hanno insegnato che senza gli altri non siamo nessuno. 

Concludiamo con un po’ di jazz? È una tua passione, raccontacela.

Sono sempre stato attratto dalla musicalità che esiste nella natura e nelle “lingue naturali”, soprattutto nei nostri dialetti. A Leontica, nel verbo “mulc”  (mungere) la elle è una consonante liquida, come in latino. È il latte! “Crus Purtéira” ha ritmi mossi e suoni aperti,  “Ra Crus du Sctrión” significati e suoni inquietanti. L’arcobaleno leventinese “Curéigja du drèisc”  semplicemente è poesia.

Ho iniziato presto a suonare il pianoforte, con una brava maestra che ha capito subito che preferivo l’improvvisazione e la ricerca di suoni alla rigidità degli spartiti. La scintilla si è accesa quando, nel luglio del 2015, papà ci ha portati allo straordinario incontro dei due pianisti americani Herbie Hancock e Chick Corea al Festival Jazz di Montreux. Avevo 14 anni e non mi sono perso un accordo!  Lì  ho capito che è legittimo osare, contaminare e dialogare, sempre con un pensiero rispettoso per le origini di questa musica, radicate nella storia sofferta della comunità afro-americana. Lo spirito del jazz ha a che fare con la libertà, l’improvvisazione e il coraggio di suonare qualcosa che non c’era, di creare sul momento una magia che viene dai sentimenti e dalle esperienze di chi suona e dei musicisti ai quali si ispira. Ha a che fare con la condivisione, perché sul palco non c’è competizione, ma reciproco ascolto. 

Il jazz, come la vera letteratura, partendo da una lingua e da una tradizione, deve sorprenderti e rinnovarti.  In un concerto jazz ogni nota e ogni istante sono ad un tempo unici e eterni, come la vita.

Intervista apparsa il 01.02.2023 sulla Rivista TreValli

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